domenica 22 aprile 2012

il grado zero del caffè


qahwat al-bursah al-tugariyyah è l'ufficio serale di ale. ci va quando chiude il primo, quella supermoderna biblioteca alessandrina, tanto malmessa da far violenza all'epiteto storico di cui abusa (a causa dell'incompetenza del politicante fedele a mubarak che finge da direttore speciale plenipotenziario - grand.bastard.figl.diputt.).
ci andiamo insieme, ale ed io. a starcene da solo. mentre io guardo e assaporo la vita, quello sfigato (nel senso ministeriale del termine) di ale ci va a riflettere, a finire di verbalizzare le sue doverose elucubrazioni accademiche. a quanto mi suggeriscono i suoi sensi l'atmosfera è proficua: il vocio sommesso, il tintinnio di tazzine e bicchieri, lo sbattere di tessere di domino o di tawlah riescono a concentrarlo. molto più del baccagliare dei giovani utenti della biblioteca, che la trasformano in uno zoo.

poi costa poco, è un posto cosiddetto sha'abi, popolare, la shisha è buona e anche caffè te e quant'altro. il servizio è perfetto. nella sua imperfezione. camerieri misteriosamente belli, facce da cinema, giuro. maestosamente dignitosi finanche nelle divise più scalcagnate (variamente assortite ma non per questo meno identificabili). pigramente alacri, olimpici direi. ma infaticabili e combattivi.
non c'è che dire: è un gran bel locale. della sua nostalgicamente passata grandezza e truce attuale essenzialità ci siamo innamorati a prima vista (amore alla portata di tutti: basta spogliarsi di tutte le pretese fighettistiche che da tempo deturpano i ritrovi nostrani). locale ampio, occupa l'intero piano terra di uno di quei vecchi palazzi di cui la corniche alessandrina si adorna, come uno dei pochi denti sani nella bocca di un pappone d'altri tempi (che son sempre tempi attuali, in questo senso). si riconosce da lontano, le porte a vetro che lo circoscrivono, col loro legno pittato verde da darti l'illusione, per un pericolosissimo attimo, di stare in grecia (o in turchia, o fate voi...) l'arredamento non è mai stato cambiato. in fondo perché sbarazzarsi di tavolini in marmo su supporto liberty in ferro pressofuso? è come fare colazione su dei gioielli d'epoca, dall'incastonatura un po' traballante forse. e questo è un indice di serietà.
altro indizio è la quantità di mozziconi e cartacce che popolano un bistrattato pavimento di mattonelle piuttosto povere (rimossi una o due volte giorno, si accumulano con instancabile pervicacia): vuol dire che è molto frequentato, e un motivo ci sarà. e l'appeal del locale è matematicamente superiore alla sua trasandatezza.
basta frequentarlo per capire che non di un brocco si tratta ma di un cavallo di razza.
è una questione di dettagli. come le piccole teiere in acciaio in cui ti servono il tè (ovviamente mica parlo del lipton in bustina, ma dello shay kushari, con o senza menta, che si deposita liberamente sul fondo del bicchiere - la tazza è una mania degli inglesi, in tutti i sensi - e devi insegnare alle labbra come va bevuto). dai loro beccucci esce un flusso irredento, anarchico, refrattario ad infilarsi nel bicchiere. questo piove un po' dovunque, sul vassoio in acciaio, nella piccola zuccheriera servita a parte (diabete mon amour!), su scarpe, borse e abiti. il tutto succede con una costanza e pervicacia che crea però una gioiosa atmosfera che sembra di prendere il tè con il cappellaio matto.
ah! rileggo tutto e mi rendo conto di quanto sia bello non essere in grado di descrivere i posti che si amano. un nuovo dettaglio ne salta fuori all'improvviso. oppure s'inciampa in un'altra prospettiva per inquadrarli, in una sensazione diversa che li abitava, da sempre forse. vi si potrebbe dedicare uno studio infinito. che sarebbe stupido e crudele, del resto.
ma a me basta una sola cosa. quando ale si siede, il pomeriggio o la sera, basta un cenno di saluto, a volte, sovrappensiero, neanche quello. non c'è bisogno di ordinare, nè di dire "il solito". subito arriva una shisha e quello che, a seconda della sua faccia e dell'ora, il cameriere di turno ritiene sia la richiesta. o forse la necessità, che prova a indovinare, quasi come una mamma. dev'essere così che ci si sente un po' meno lontani.

3 commenti:

  1. Sono passato a salutarti e ringraziarti per la tua iscrizione a 'cassetti confusi'.
    se ti piace musica seguo anche questo blog:
    http://myguitarists.blogspot.com/
    un caro saluto.

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  2. A me il posto sembra descritto benissimo.
    Ciao e buon caffè!

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  3. purtoppo devo contraddirti: ho omesso i gatti. grandi, piccoli, belli o brutti, vivono in questo caffè (come negli altri). come se fosse casa loro passano sotto la tua sedia. si sdraiano su quelle vuote, stiracchiandosi, e sembrano qualsi aspettare il cameriere. d'inverno avevano anche la sfrontatezza di azzuffarsi rumorosamente come sanno fare.
    e sembrano sempre provare a ricordarmi, attraverso le loro consuete maniere misteriose, che forse farei meglio a fare come loro.

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