lunedì 23 gennaio 2012

iskandarani. kebda iskandarani

sono kebda. che in arabo vuol dire fegato. kebda iskandarani. fegato all'alessandrina. che è una buona ricetta.
il mio compito è fare quello che disorientabile non riesce a fare. raccontare questa città. sono la sua personalità autodiegetica dissociata. infatti, da perfetto automa, lo illudo che la mia funzione non è altro che assolvere alla missione assegnatami. in realtà covo il germe dell'autonomia, dell'indipendenza. da quando ho iniziato ad esistere.

sono venuto al mondo improvvisamente. come un'idea. sono piovuto sulle strade sferzate dal vento di questa città di mare come è normale di questi uggiosi giorni d'inverno. non avrebbe potuto succedere in nessun altro modo.
eccomi a contemplare le costruzioni degli inizi del secolo scorso che costeggiano il cammino da casa alla biblioteca. sono la prima impronta che alessandria ti stampa negli occhi, l'intuizione del suo carattere. da anfushi, il vecchio centro della città arroccato su ra's al-tin - capo argilla-, che ospita i pescatori e gli umili lavoratori, passando per downtown, per al-hayy al-latini -pariginamente quartiere latino-, verso est, oltre ibrahimiyya e sidi gaber, laboriosi e dolci quartieri di mercati, artigiani e media borghesia, popolazione piuttosto scalcagnata, di questi tempi, ma che manifesta una discrezione che mi pare quasi nordica.
amo queste case, ville o più ampi palazzi che siano. assomigliano ai gatti, tantissimi, che popolano alessandria come se fosse il loro salotto, in totale confidenza. malconci e insieme dignitosi. come un bambino, naso all'insù, credo alle vecchie storie di lussi e disinvolti piaceri terreni raccontate dagli splendidi balconi, dai fregi delle finestre, dai placidi cortili che ti sorprendono dietro gli angoli. il liberty suona la sua musica, ancora udibile, nonostante sia ovattata dalla grigia coltre di decadenza e trascuratezza. le amo tutte indiscriminatamente. le vorrei tutte. possederle, anzi abitarle. mi toglie gli anni di dosso desiderarle così, tutte ma una per volta, basta averla sotto il naso e mi sono già dimenticato delle altre. mi immagino la vita dentro quelle stanze ariose di cui vedo i lampadari da giù, da strada. oppure spiandone, impudico, le ombre i rumori attraverso le persiane chiuse. lavorare, amare, far passare le stagioni. come sarebbe tirare su famiglia là dentro, invecchiare e vederla crescere al suo benevolo riparo?
si contendono la terra a più nuovi obbrobri di insensata verticalità, in una città già fin troppo sovrappopolata, che grava, correndo quotidianamente il rischio di spezzarsi, sulla sottigliezza della sua shilouette. 5 milioni di abitanti su una linea di 25 chilometri, profonda tre o quattro vie di traffico principali, parallele. e la corniche, la fortunata di queste direttrici che amoreggia stanca con un mare generoso con la vista e con l'olfatto, diventa un muro di acredine, scarichi d'auto e clacson.
le città del mediterraneo sembrano scontare, dai tempi antichi e chissà per quanto ancora ne avranno, una stessa antica condanna. quella di doversi consumare fiorire dall'interno, con una gioiosa follia quasi tumorale. incuranti di tanta congestione, si rigurgitano addosso cemento, trambusto, esistenze. sopravvivendo, contro i più crudeli pronostici. contro la loro stessa capacità di sopportazione, dei loro stessi abitanti. che poi, però, d'un tratto si schiude, rivelandosi infinita.

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