domenica 4 marzo 2012

memoria: correre


mi ricordo esattamente perchè avevo cominciato a correre. non avevo ancora smesso di fumare, al momento non mi importava un granché.
ad un certo punto mi ero reso conto, non so neache bene come, che c'era qualcosa che mi impediva di uscire dal pozzo che mi ero scavato intorno. mi riempivo di rancore, a furia di guardare gli altri che se ne erano andati avanti per i fatti loro. e io che cercavo di capire come diavolo facessero, mentre non facevo altro che annaspare, con la cieca ostinazione del mulo, ma senza la sua imperscrutabile saggezza.
il punto debole erano le gambe. la fatica. non ne potevo più di contenermi, per paura di non farcela, che non avrei saltato il salto, o tenuto il ritmo. per paura che mi facesse male. che mi venisse detto ancora che ero sbagliato, di ripetermelo una volta di più.

lavoravo come cameriere a londra. certi giorni mi svegliavo con le gambe che mi facevano male, come se avessi sognato di essere un cavallo, ma senza portare nessun ricordo della corsa, del vento e delle praterie. temevo che sarebbe venuta la volta che non ce l'avrei fatta, che le gambe mi avrebbero abbandonato, e non avrei potuto portare i vassoi con i cocktail, i piatti in tavola. fallire. ancora.
ma non era solo le gambe. conservavo le mie forze, consacrandole tutte al turno successivo. al grigiore in cui mi ero compresso in ossequi di chissà quale senso del dovere. per svegliarmi sempre in tempo, per non arrivare tardi. per essere sempre presente, e capire quella lingua che, per quanto fossi riuscito a dominare, non avrei mai sentito famigliare. mi muovevo, stando fermo. annaspavo, galleggiando a fatica.
forse fu il giardinaggio, quel corso dell'associazione di salute mentale a cui decisi di prendere parte come operatore volontario. per scoprire che non esistevano lati in quell'orto, io da una parte e loro dall'altra. ma un cerchio, intorno alle piante che ci facevano imparare, più che insegnare.
allora scoprii che le piante si muovevano. più di quanto facessi io, nonostante i chilometri che le mie ginocchia mi rimproveravano. un moto continuo, incrollabilmente sereno, la loro instancabile tensione verso due opposti infini, il cielo e la terra.
quattro ore a settimana, il terreno dell'orto ci rendeva uguali, eravamo piante e comunicavamo tra noi senza fretta, speranze paure. ci prendevamo cura di noi mentre ci prendevamo cura di loro.
furono le piante a spogliarmi del pozzo di risentimento di cui mi rivestivo. mi trovai nudo, e sentii che la mia cautela non faceva altro che rimandare la vita, mentre le mie radici marcivano senza più dare niente alla terra che le accoglieva.
quindi decisi che non avevo scelta che muovermi. anzi correre. cominciai con santo, con cui condividevo la casa e lo stesso bisogno.
santo sapeva come si fa.
si inizia piano. non per paura, ma per necessità. per dare alle gambe il tempo di abituarsi alle loro capacità. basta poco e tutto comincia a girare.
dopo un po' andavo anche da solo, non potevamo sempre insieme. c'era un parco piuttosto grande a pochi minuti di cammino da casa. avevo deciso che le mie paure dovevo cominciare a combatterle dalle radici. dalle gambe. non mi importava della velocità, cercavo di sfidare il dolore dei muscoli, quello dei polmoni quando non hai fiato e decidi di accelerare, di arrivare in cima alla salita. stavo imparando di nuovo ad affidarmi a me stesso, a indovinare che sarebbe andata bene. come tuffarsi. recuperare la saggia, coraggiosa incoscienza dei bambini. indovinare il punto dove credi di non farcela più, e passarlo, e cercarne un altro, più oltre.
l'essere umano è un volano che non conosce limiti. passati i timori legati al corpo avevo cominciato ad aggredire quelli legati al resto. mentre correvo svuotavo la mente, mettevo tutte le mie paure, a nudo di fronte a sè stesse. scoprendole fragili, relative, piccole.
i miei pensieri si calmavano, si affilavano. mentre lo sguardo si allungava, andava dietro le curve e le chine. e lo spirito recuperava il gusto per il dettaglio, per l'inaspettato.
allora liberai il mio tempo dalla camicia di forza del tempo lavorativo. lo riconquistai. ripresi a studiare, senza sentire il peso della ruggine di anni di inattività. anzi cercavo la salita proprio come facevo al parco. cercavo la difficoltà, la densità. non per calcolo o per programma. lo facevo solo per me, per le strane idee che mi turbinavano per la mente.
presi ad andare biblioteca. per mettere alla prova quelle fantasie che mi piacevano, per farle arrabbiare e vedere l'effetto che faceva. per curare la terra in cui poggiavano le loro radici. subito dopo a lavoro. non l'avrei mai fatto prima: avrei avuto paura per la divisa, che volevano impeccabile, di arrivare tardi o troppo stanco. arrivai al punto di farmi un'ora di corsa dopo 10 ore di turno.
il bello è che non mi preoccupavo più di essere stanco, non lo sentivo. andavo e basta, e più mi facevano male i polmoni, più spingevo. si era squarciato il velo di torpore che schiacciava dalla mattina. trovavo tante cose nuove e mie, che mi ero perso per mesi, forse anni, per paura di rischiare.
finalmente, quando mi fermavo un po', era galleggiare, non sprofondare. per ripartire incuranti di un po' di fiatone.
ora ricordo come attraversare tempeste insieme a te mi ha regalato energia, invece di consumarle, come mi ha insegnato a trovarne ancora dentro di me. basta essere inaspettati come sei stata tu. come le cose più belle. voglio trovare la strada per ritornare ad esserlo.

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